L’Agenda 2030 contro tutte le disuguaglianze

Enrico Giovannini

Buongiorno a tutti. Effettivamente, quello di cui parliamo oggi sembra un’utopia, ma accanto a quei 17 Obiettivi ci sono 169 sotto-Obiettivi, o “target”, che sono molto concreti: uno per tutti, ridurre drasticamente il numero dei NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, entro il 2020. Questo è ciò su cui si è impegnato il Governo Italiano a settembre del 2015.

 

Può sembrare difficile, e lo è, ma non è impossibile. Altri paesi lo hanno fatto.

 

Come abbiamo sentito poco fa, vorremmo guardare al futuro ma in realtà cambiando il presente, adesso. È per questo che i grandi della terra, a settembre 2015, hanno deciso di cambiare questo mondo che non va: un mondo fatto di povertà, di squilibri, di mancanza di energia, ma fatto anche di eccessi. Pensate che un miliardo e mezzo di persone riceve solo il 5 per cento del PIL mondiale, mentre mezzo miliardo di persone, quelle più ricche, possiede il 90 per cento della ricchezza. Ci sono 800 milioni di persone sottonutrite, rispetto a 600 milioni di obesi. Insomma, i problemi sono tanti, e i grandi della terra, basandosi sulla scienza – perché è ancora opportuno basarsi sulla scienza e non solo sulle chiacchiere – hanno preso una decisione storica, dopo due anni di negoziazione.

 

Quei 17 Obiettivi, quei 169 target, sono stati negoziati da tutti i paesi della terra; una negoziazione dura, che però aveva alle spalle un’idea: bisogna decidere di farla finita con tutta una serie di cose che possono essere bandite completamente. Per farlo, bisogna cambiare mentalità, cambiare approccio.

 

 

Ecco i 17 goal, da imparare a memoria − io ci sono quasi, dopo un anno – perché alcuni sembrano simili ma non lo sono affatto. Abbiamo capito, infatti, che lo sviluppo sostenibile non è solo una questione ambientale, ma anche sociale, economica e istituzionale: pensate alla paura delle elezioni in alcuni paesi europei, che avrebbero potuto far cadere le nostre istituzioni.

Tre sono i principi da seguire:

 

  • l’integrazione tra le politiche economiche, sociali, ambientali e istituzionali;
  • l’universalità, cioè l’idea che tutti dobbiamo fare qualcosa, tutte le componenti all’interno di ogni paese, soprattutto le imprese;
  • la partecipazione, perché se non ci muoviamo in prima persona, nessuno lo farà al posto nostro.

 

Perché siamo partiti dalla disuguaglianza? Quelli che vedete sono i target, molto concreti, su cui il Governo Italiano si è impegnato ufficialmente nel settembre 2015; se li osserviamo, capiamo che ci sono dei punti fondamentali: ad esempio, le disuguaglianze di opportunità e di risultato non si possono eliminare, ma possono essere ridotte. E ancora, un altro elemento fondamentale è la lotta alle disuguaglianze attraverso le politiche fiscali, economiche e sociali.

Un altro obiettivo è il numero 5, dedicato alle disuguaglianze di genere; altrettanto odiose e orribili, perché in alcuni casi comportano anche violenza fisica: tutti i paesi del mondo, compresi quelli meno sensibili, si sono impegnati ad andare in questa direzione a proposito di questi temi.

 

Capiamo, allora, che possiamo essere molto più concreti: dobbiamo essere molto più concreti, perché è attraverso questo che passa la sostenibilità, intesa a tutto campo.

 

 

Eppure, non tutti la pensano così: alcuni pensano che parlare di redistribuzione, povertà, sostenibilità, diritti, significhi parlare di chiacchiere, perché quello che conta è far crescere l’economia, il famoso PIL. Questo è vero, ma guardiamo alle previsioni di Prometeia per l’Italia da qui al 2024, previsioni che gli economisti sistematicamente sbagliano ma che possono sicuramente aiutarci a capire: il nostro paese crescerà dell’uno per cento all’anno, il tasso di disoccupazione resterà intorno al 10 per cento, come attesta anche il Documento di Economia e Finanza del Governo; e ancora, il reddito disponibile aumenterà di poco, ma le retribuzioni reali pro-capite diminuiranno. Questo vuol dire che le disuguaglianze aumenteranno.

Le previsioni fatte per gli altri paesi europei non sono tanto diverse. Questo è ciò che sostiene l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) da svariati anni: ci sono delle dinamiche profonde nelle società, nel mondo, che faranno rallentare la crescita economica. Quindi, l’idea che il paradigma della crescita risolva tutti i problemi non funziona. Ciò non vuol dire che vada abbandonato in favore delle famose decrescite felici, perché non è di questo che stiamo parlando: stiamo parlando del tentativo di toccare quei fenomeni profondi che ostacolano anche la crescita. È sempre l’OCSE a dirlo: ormai le disuguaglianze rallentano la crescita economica, e se saranno abbandonate a loro stesse, non faranno che aumentare.

Tasso di crescita annuale del PIL. Fonte: OCSE.

 

Ecco perché la sostenibilità non è una questione puramente ambientale: perché secondo le previsioni, intorno a queste disuguaglianze di reddito ne passeranno molte altre. 

 

A tutto questo, si aggiungerà il cambiamento climatico. Questa è una cartina presa dall’Agenzia europea dell’Ambiente, che ci dice che non tutte le nazioni europee saranno colpite nello stesso modo: l’area mediterranea sarà maggiormente esposta, e l’Italia sarà colpita ancora di più.

Ci saranno vincitori e perdenti attesi del cambiamento climatico: infatti, è chiaro che con maggiore calore alcune regioni riusciranno a coltivare, in assenza di neve, quello che noi coltiviamo oggi. Quindi, potete vedere che anche il cambiamento climatico ha, e avrà in futuro, un impatto sulle disuguaglianze.

Tuttavia possiamo prepararci, e allo stesso modo dovremmo prepararci rispetto al problema dell’acqua collegato al cambiamento climatico, che ne ridurrà la disponibilità: secondo le previsioni, nel mondo – in particolare quello ai nostri confini – ci saranno problemi seri, quindi una parte delle migrazioni sarà legata a questo fenomeno.

E poi, non va dimenticata la tecnologia. Queste sono le stime dell’OCSE, non quelle terroristiche di alcuni professori americani, che ritengono che il 40 per cento dei lavori andranno persi a causa dell’automazione, ma stime maggiormente conservative:

L’impatto dell’automazione sull’occupazione. Fonte: OCSE.

Non dobbiamo concentrarci sulla parte sinistra, quanto piuttosto su quella a destra, che indica i lavori che non spariranno completamente ma che dovranno essere completamente ridisegnati: da qui al 2025, l’Italia è il terzo paese più esposto a questo enorme cambiamento rispetto agli altri paesi dell’OCSE.

 

Prima si parlava di capitale umano: se non investiamo sul capitale umano, non riusciremo a fare questa transizione.

 

 

Secondo le previsioni della Commissione Europea, la futura disoccupazione per qualificazione sarà sostanzialmente inesistente per i laureati o i soggetti ad alta qualificazione, e molto alta per chi possiede una qualificazione bassa: è qui che il concetto di capitale umano entra in modo deciso.

Ecco il cambio di paradigma che ci è richiesto: dobbiamo capire che la cultura dello scarto, come la chiama Papa Francesco, si applica alle persone e alle cose; quella cultura che fa sì che nei mari, secondo alcuni, tra diversi anni il peso della plastica supererà il peso dei pesci; quella stessa cultura che scarterà le persone.

 

Questa cosa è inaccettabile, insostenibile.

 

L’Italia non è su un sentiero di sostenibilità: nel Rapporto dell’ASviS fatto a settembre 2016 il risultato era evidente, oltre che confermato dalle analisi del Governo e del Ministero dell’Ambiente. Queste analisi ci dicono che possiamo cambiare una serie di cose nel breve termine, ma che in alcuni casi mancano delle strategie fondamentali. La strategia energetica è in preparazione, ma spesso c’è assenza di una visione sistemica; per questo abbiamo fatto alcune proposte, anche istituzionali, al Governo. Si possono fare, le cose: imparando da altri.

 

Abbiamo fatto una serie di proposte intorno a sette assi che hanno a che fare con il capitale umano, il capitale naturale, quello sociale e naturalmente con il capitale fisico, le infrastrutture. Sono cose che si possono fare: le fanno gli altri paesi, perché noi no?

 

Naturalmente dobbiamo essere ragionevoli, avere un atteggiamento di flussi e di stock: tutte le novità che partono devono andare in questa direzione; nel frattempo riconvertiremo quello che abbiamo distorto, ma tutto ciò che è nuovo deve andare in questa direzione.

Oggi abbiamo scelto di dedicarci a quattro temi: educazione e cultura, imprenditorialità e innovazione, alimentazione e salute, lavoro e welfare. Faccio giusto qualche anticipazione per annodare i fili del discorso di tutta la giornata, con un po’ di dati su questi aspetti.

Osservando la percentuale di alunni che, secondo i test PISA, non raggiungono un livello minimo di istruzione a quindici anni di età, ci rendiamo conto che anche se stiamo migliorando ciò che conta sono le differenze tra i ricchi e i poveri. Ci sono quasi trenta punti di differenza tra la possibilità di acquisire le competenze e non averne affatto. Questo è chiaramente l’effetto della crisi economica, che ha effetto anche sull’educazione e sull’abbandono scolastico. Infatti, i dati sull’abbandono scolastico dei ragazzi italiani e di quelli che ci ostiniamo a chiamare stranieri (che probabilmente, in futuro, costituiranno gran parte della nostra forza lavoro, proprio quella che sarà impattata dai cambiamenti di cui abbiamo parlato) sono evidenti: 31 per cento di abbandono scolastico per i figli degli immigrati. Ancora, ci sono i dati che attestano la grande differenza tra i bambini che vanno all’asilo e quelli che non ci vanno, che avranno quindi maggior probabilità di non raggiungere le competenze all’età di quindici anni: sappiamo quanto siamo carenti, soprattutto in alcune regioni, di asili nido.

Va poi considerata la differenza tra la speranza di vita di chi è laureato e di chi non ha neanche la licenza di scuola elementare: ben cinque anni di differenza. Questo è il legame tra educazione e salute: significa parlare di stili di vita diversi, abitudini di consumo alimentare diverse. Un’altra differenza è quella che si attesta tra il tasso di successo delle piccole imprese condotte da laureati e non laureati: questo ci dà un’idea di quanto la laurea, come indicatore della capacità dell’imprenditore di una piccola impresa, diventi un indizio di quanto un’impresa sia innovatrice o in difesa. Chiaramente, non vanno dimenticate le differenze di reddito e di esposizione alla povertà.

 

Insomma, se ragioniamo in questi termini in modo trasversale, capiamo perché le disuguaglianze non riguardano solo una componente, ma le attraversano tutte.

 

Un ultimo dato estremamente importante è il tasso di povertà per età rispetto al tasso medio di povertà: in Italia la curva si è radicalmente invertita, e la povertà è aumentata per i giovani e gli adulti.

 

Questo è un cambiamento profondo: la povertà non è solo assenza di reddito, ma di possibilità.

 

Insomma, avete capito che abbiamo preso seriamente, forse più seriamente, quello che hanno deciso i capi di Stato e di Governo, quando hanno preso “una storica decisione riguardante un insieme di obiettivi e di traguardi ampio, di vasta portata, centrato sulle persone, universale e trasformativo”, e hanno detto:

 

Ci impegniamo a lavorare senza sosta per la piena attuazione di questa Agenda entro il 2030.

Beh, Anche noi.

 

Intervento del Professor Enrico Giovannini, portavoce ASviS, tenutosi in occasione dell’evento di apertura del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2017, “Italia 2030: che nessuno resti indietro! Ridurre le disuguaglianze di tutti i tipi, per tutte e per tutti, a tutte le età”, svoltosi il 22 maggio 2017 presso il Teatrino di Corte del Palazzo Reale di Napoli e organizzato dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. Il Center for Economic Development & Social Change (CED), in qualità di membro ASviS, era presente all’evento.

 

Fonte: Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile – ASvis.

About Enrico Giovannini

Professore Ordinario di Statistica Economica presso l'Università di Roma "Tor Vergata". Portavoce ASviS - Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile

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