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Buongiorno. Sono Sabrina Aguiari, Presidente dell’Associazione Punti Di Vista, che da circa vent’anni ricerca informazioni, evidenze, esperienze, per contribuire a uno sviluppo sostenibile. Vorrei condividere con voi dei pensieri, o meglio, delle domande per contribuire a visioni e percorsi di futuro prossimo venturo verso la sicurezza alimentare.
Parlare di sicurezza alimentare in un momento come questo evoca apparati istituzionali, armati, militari, già quando si introduce la parola “sicurezza”: un po’ di colori grigio, acciaio, ferro. Proprio queste associazioni mentali sono però, forse, rivelatrici di una questione importante per parlare di sicurezza alimentare, che ora vorrei introdurre.
Ricordiamo la definizione corrente, condivisa, di sicurezza alimentare: la situazione in cui tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso − da un punto di vista fisico, sociale ed economico − a del cibo sufficiente, sano, nutriente, che corrisponde ai loro bisogni. Ricordiamo anche quanto siamo lontani da questo orizzonte: un sesto della popolazione mondiale non ha sufficiente cibo; un miliardo di persone ha, apparentemente, il cibo sufficiente, ma questo cibo non contiene i micronutrienti necessari; un altro miliardo, invece, è sovrappeso, e la metà di queste persone è addirittura obesa.
Perché la situazione è questa? Dove stiamo andando?
Per trovare risposte soddisfacenti bisogna puntare l’attenzione sulla sfera della governance, in altre parole sulle relazioni di potere che rappresentano le decisioni. La guerra, così come la condizione di insicurezza fisica totale dovuta alle guerre – che non accadono per forza di gravità, ma sono l’effetto di azioni intenzionali prese da chi detiene il potere decisionale a livello nazionale e mondiale – e così pure la condizione di insicurezza alimentare sistemica non sono di per sé naturali, ma sono frutto più o meno intenzionale di scelte e decisioni prodotte dalle élite economico politiche. Le guerre sono possibili grazie al fatto che alcuni gruppi, collegati a queste élite, le perseguono, le immaginano, le progettano, le organizzano e vi si applicano intenzionalmente; parimenti, l’insicurezza alimentare.
Così diffusa nella società umana e contemporanea, organizzata in nazioni – ma soprattutto in corporazioni – l’insicurezza non è tanto dovuta a una condizione fisica, come il sottostare alla forza di gravità (in altre parole, all’insufficienza di cibo): infatti, se il sistema fosse in equilibrio, data la produzione attuale di cibo, ce ne sarebbe a sufficienza per tutti. Se si ha intenzione di risolvere il problema della sicurezza alimentare, la cosa più sbagliata è affrontare il problema dell’insicurezza alimentare soltanto in maniera fisica, tecnica o tecnologica: non si può affrontare la risoluzione della guerra in questo modo, perché con la tecnica si possono solo produrre armi e contro-armi di tale varietà e quantità, da poter solo assicurare la riduzione di scenari senza guerra.
Non sono più credibili i discorsi sulle strategie per raggiungere la sicurezza alimentare, incentrati esclusivamente su tecniche e tecnologie; le tecnologie eritistiche che dicevano di voler ottenere la sicurezza alimentare globale, hanno definito percorsi e tempistiche dell’agricoltura – e anche della produzione e consumo di cibo – in maniera quasi totalizzante negli ultimi quarant’anni. Hanno creato, simultaneamente: ex contadini senza terra; surplus; riduzione di biodiversità, di varietà alimentare e del valore nutritivo dei cibi; riduzione del numero e della capacità di produzione dei piccoli coltivatori, nonché riduzione della loro capacità di autosussistenza. Tutto questo è avvenuto nello stesso momento, durante il quale si è avuto una significativa depauperazione dei suoli, anche a causa di quegli input chimici che a loro volta hanno creato un grande bisogno mondiale di petrolio, usato sia come carburante, sia come materia da cui ottenere derivati per l’agricoltura.
Le strategie di adattamento dell’agricoltura al cambiamento climatico sono una porta di entrata per molte tecniche − alcune come l’agroecologia – che rischiano di avere un grande potenziale di trasformazione degli assetti di quella stessa governance che ha concesso l’instaurarsi dell’agribusiness. Tuttavia non bisogna distrarsi, perché con l’agroecologia si accompagnano soluzioni di mitigazione del cambiamento climatico, che propongono non di rallentare o ripensare le pratiche clima-alteranti, ma al contrario di perfezionare le capacità di alterazione del clima attraverso le tecnologie. Ma alcune di queste tecniche, come dicevo, hanno un grande potenziale di trasformazione del paradigma ancora dominante: si parla di soluzioni tecniche che al contempo sono espressione di diversi modi di intendere la relazione tra produttore e consumatore, vita ed economia, produzione e ambiente, tra individuo, mezzi di produzione e comunità.
Queste, le soluzioni: più biodiversità, ma anche varietà antiche, piccola scala, integrazione di pastorizia, agricoltura, foreste; riduzione di input chimici ed esogeni, curando la natura con la natura; puntare a una maggiore produzione di cibi freschi, a tecniche di conservazione più naturali e agricolture di piccola scala, perfino nel verde di città; infine, l’utilizzo di energie rinnovabili in agricoltura. Queste sono soluzioni tecniche, ma sono anche visioni politiche e di governance.
Per molti sostenitori di queste tecniche e tecnologie ormai non bisogna più parlare di sicurezza alimentare, ma di sovranità alimentare: sovranità, proprio per rimuovere dall’espressione verbale quel riferimento implicito a un tipo di patto sociale che accetta il monopolio della violenza, e per invertire – almeno nella dimensione semantica del cibo – il processo di esautorazione collettiva che conduce all’instaurarsi di strutture produttive e politiche piramidali. L’espressione sovranità alimentare, con il suo carico di valori di governance, non ha fatto piena breccia nelle maggiori istituzioni globali che si occupano di sicurezza alimentare; tuttavia, le tecniche riconosciute come appropriate da chi le sostiene, crescono in popolarità, in quantità di esperienze in corso, in quantità di risultati documentati e in ambienti – anche intergovernativi − che le considerano. In ultima analisi, questa violenza strutturale, presente anche nell’attività verso la sicurezza alimentare, potrebbe essere superata entrando nello spazio delle possibilità definite dalla sovranità alimentare. Un dubbio, tuttavia, rimane, e va chiarito.
Si parla sempre e soltanto di agricoltura. L’agricoltura produce cereali, frutta, ortaggi; in senso allargato, produce animali e pesci, ma non produce cibo. Allora, chi lo produce?
Lo produce esattamente chi lo produceva prima dell’industria alimentare, dei precotti, dei semilavorati; prima delle monodosi, dei surgelati, degli invaschettati; a produrlo sono le donne. Bambine, madri, mogli, figlie, sorelle, nonne, zie. Dove sono questi soggetti nell’equilibrio dell’agribusiness? E dove possono essere, invece, nel paradigma di sovranità alimentare? Come si potrebbe ripartire diversamente il carico di lavoro, la conoscenza necessaria, la perdita di altre opportunità, il riconoscimento sociale, legati alla responsabilità di cura, di trasformare un raccolto in cibo commestibile, nutriente?
Nei paesi sviluppati, ora in crisi, le prospettive di decrescita possono essere felici solo se sono capaci di interrogarsi e prendere posizioni audaci, eque, rispetto alla profonda, strutturale e quasi universale disuguaglianza di genere. È predata la rivoluzione verde, così com’è predato il colonialismo, la formazione degli stati-nazione, e da molti millenni ormai si riflette sulle nostre tavole.