Agribusiness e alimentazione: prospettive per il lavoro e lo sviluppo economico nel mondo

Renato Briganti

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Chi controlla il mercato del cibo, decide in sostanza i processi globali: salute, lavoro, cambiamenti climatici, democrazia, tutto ruota intorno alle nuove sfide dell’agribusiness.

 

La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano

Francesco De Gregori, 1985

 

Il rapporto tra terra, agricoltura e cibo è decisivo oggi nel contesto della crisi che stiamo attraversando. L’integrazione dei mercati a livello globale ci riconduce, oggi, all’interdipendenza dei Paesi e dei fenomeni. Questa, oggi ha raggiunto il grado più alto della storia dell’umanità. Anche l’agricoltura, così come il diritto e lo sviluppo agrario, sono stati investiti da questo processo irreversibile di dipendenza globale-locale. Così, una politica agraria locale o una disciplina giuridica nazionale subiscono decisioni prese altrove, spesso in luoghi geograficamente ed economicamente lontani. Il mercato del lavoro agricolo palesa non poche criticità, laddove il quadro giuridico in campo agricolo non sembra virare nella direzione della tutela effettiva dei diritti dei piccoli produttori, né dei consumatori a carattere familiare. I temi legati all’agricoltura e all’alimentazione acquisiscono oggi un rinnovato interesse soprattutto in Italia, confermato dalla moltitudine di eventi e movimenti in grado di muovere ingenti investimenti internazionali (tra i tanti, EXPO 2015: “Nutrire il pianeta energia per la vita”, Slow Food e Eataly). Per questo, è importante delineare uno stato dell’arte dell’agricoltura e dell’alimentazione per decifrarne i connotati in termini di sviluppo e lavoro.

 

I rapporti internazionali sullo sviluppo agricolo

I Rapporti annuali pubblicati dalle organizzazioni internazionali costituiscono la fonte più completa per analizzare dati e trend degli indicatori di sviluppo e crescita economico-sociale. Vanno segnalati, in particolare, quelli realizzati da agenzie delle Nazioni Unite per l’alimentazione e lo sviluppo quali FAO, IFAD, UNIDO, UNDP e dalla Banca Mondiale. Coltivare la terra è di gran lunga il lavoro più praticato del pianeta, ma nelle grandi città del nord del mondo non si ha assolutamente questa percezione, benché esse siano inondate dai beni agricoli: si dilata sempre più la distanza tra chi produce cibo e chi lo consuma e ciò che ne emerge è una popolazione urbana confinata al ruolo di consumatrice acritica, dalla vista e dalla memoria corta. Questo fenomeno è ancora più grave per un Paese come l’Italia, a forte vocazione di agricoltura di qualità e con un dignitoso retaggio contadino. In media oggi arriva nelle città una quantità molto maggiore del fabbisogno giornaliero procapite, mentre per paradosso il cibo scarseggia proprio per quei lavoratori che lo producono. Altro dato globale è che metà della popolazione mondiale vive in aree rurali. Non solo ci lavora, ma abita in zone in cui i diritti e il sostentamento stesso delle persone sono legati strettamente alla terra. In questi casi, shock esogeni della produzione, quali cambiamenti climatici, alluvioni, siccità e desertificazione, non sono solo un problema lavorativo, di perdita di impiego, ma compromettono tutti gli aspetti della vita. A questa fragilità dei mercati rurali si deve il crescente successo degli strumenti di micro-assicurazione nei Paesi in via di sviluppo più vulnerabili alle variabili produttive esterne.

Sempre dai Rapporti internazionali si evince un altro dato collegato ai precedenti: le persone sotto la soglia di povertà spendono più del 30% del loro magro reddito in cibo, che risulta la voce di spesa di gran lunga maggioritaria del loro bilancio. Vuol dire che il loro reddito proviene dalla terra e in alta percentuale torna alla terra. Per questo l’impatto della crisi alimentare nel mondo è principalmente pagato da questo tipo di persone, le più povere tra i poveri, che la subiscono due volte: come manodopera prima e come consumatori dopo. A questo si sovrappone il collegamento tra la crisi alimentare e le rivolte: gli abitanti delle aree rurali hanno compreso che non è la terra a negargli cibo e dignità, ma sono scelte economico-finanziarie, prima che politiche di mercato, lontane dalle dinamiche di raccolto. È questo il caso della Primavera Araba: se si pensa al laboratorio tunisino, dove una delle ragioni principali dell’insofferenza di larghe fasce di popolazione fu proprio l’aumento insostenibile dei prezzi di materie prime e alimentari di prima necessità (Gatto, da ricerche sul campo, aprile 2011). Il dato fondamentale è che questa, come tante altre rivolte, è nata dal problema che tocca più da vicino le persone: il cibo.

Anche se il contributo dell’agricoltura al PIL mondiale è limitato, da sempre esiste un cospicuo intervento economico dei governi in questo settore, che è sempre stato fortemente conteso da tanti interessi. E ciò è dovuto anche al fatto che l’agricoltura offre commodity su cui si basa la partenza del ciclo economico. Malgrado l’attenzione dei governi e delle organizzazioni sovranazionali, e di massicci investimenti pubblici e privati nel settore agricolo, persiste nel pianeta l’allarme della sicurezza alimentare, cioè la difficoltà per milioni di persone di avere accesso alle sostanze nutritive di base necessarie per sopravvivere in salute. Nonostante la normativa specifica di settore e le dichiarazioni di intenti, i governi non riescono ancora a distribuire il cibo che possa fornire energia sufficiente per la sopravvivenza. È questo il caso di ampie regioni del continente asiatico, dove magari si arriva anche ad un’alimentazione minima giornaliera pro-capite, ma monoproteica, o costituita sempre dallo stesso alimento, causa di malnutrizione e malattie. Risultati ancora peggiori si registrano nel continente africano, dove la sottonutrizione si somma alla malnutrizione, e l’obiettivo della sicurezza alimentare per tutti sembra un lontano miraggio. Tra i programmi più importanti lanciati a livello internazionale bisogna citare i Millennium Development Goals, gli otto Obiettivi di sviluppo del millennio dell’ONU: lo scopo numero uno è «sradicare la povertà estrema e la fame», e in particolare «dimezzare fra il 1990 e il 2015 la percentuale di popolazione che soffre la fame», risultato raggiunto solo in parte (fig. 1). L’aspetto più inaccettabile di questa situazione è che, di fronte alla dilaniante crisi dell’alimentazione si riscontra un’eclatante crisi di sovrapproduzione. Di cibo se ne produce anche troppo: i mercati globali, spesso distorti da protezionismi e neocolonialismi, inducono mercati interni ed esterni a un’enorme produzione su scala di massa di prodotti agricoli standardizzati, senza riguardo per la qualità, purché costino poco all’intermediario. In questo processo gioca un ruolo importante la finanziarizzazione dei mercati, per garantire alti profitti agli intermediari.

Progress on Millennium Development Goals

Progress on Millennium Development Goals in developing countries

 

Oggi, di fronte al collasso di questo sistema, si ripropongono domande sulla crisi di sovrapproduzione: per chi, come e quanto si produce? Sia i giuristi che gli analisti economici ragionano da tempo sullo squilibrio del diritto al cibo e della produzione agricola, che raramente avveniva per i Paesi OCSE. Nel Rapporto 2011 del Consiglio d’Europa sulla coesione sociale nell’Europa a 27 Paesi, siamo arrivati quasi al 40% di fabbisogno agricolo insoddisfatto, troppo per una regione a benessere diffuso. Questa cifra sta a significare che esistono sempre più europei che non riescono ad avere accesso ai beni agricoli essenziali. L’altro dato inquietante è che ciò non avviene perché la terra non ci dà abbastanza prodotti o perché i produttori non vogliano più coltivare, ma perché si distrugge ciò che è considerato sovrapproduzione. Il dato dei beni agricoli mandati al macero ogni anno in UE rasenta la beffa: il rapporto su dati 2010 indica che circa il 40% della produzione totale viene distrutta per scelte di mercato. In sostanza, l’agribusiness incassa gli aiuti dell’UE per sovraprodurre, dopo di che è più conveniente lasciar marcire il prodotto agricolo che portarlo sul mercato.

Il link tra questi dati può portare a semplificazioni eccessive, ma sicuramente i due aspetti della PAC (Politica Agricola Comunitaria) non possono essere sempre letti separatamente e da esperti diversi, in epoca di interdipendenze strette tra i fenomeni. Inoltre, le cifre emerse sono verosimili anche per il caso italiano, con casi eclatanti di distruzione di beni agricoli fruibili e di eccellenze, dalle mele della Val di Non alle arance del meridione siciliano.

Il limite fisico della produzione agricola, la deperibilità degli alimenti stagionali, i retaggi culturali di alcune tecniche tradizionali, le consuetudini alimentari, il legame tra cibo e salute, hanno creato le condizioni perché si sviluppasse un movimento culturale e scientifico critico con questo quadro generale. Ricercatori ed analisti ambientali, dello sviluppo economico e della gestione delle imprese agroalimentari, consumatori e produttori agricoli, giuristi e legislatori nazionali illuminati, hanno cominciato a contrapporre a queste politiche egemoni, che producono fame da una parte e spreco dall’altra, un’agenda positiva, una visione sistemica radicalmente diversa. Non tanti NO di categoria, singole proteste locali o tipici movimenti NIMBY (Not In My Back Yard, “non nella mia aiuola”), fomentati da detrattori del micro-cambiamento che danneggia i propri interessi particolari, bensì una scuola di pensiero ampia, che coinvolge milioni di persone verso un cambiamento di rotta. Ciò è possibile perché il cibo e l’agricoltura sono davvero trasversali a tante questioni dell’attuale agenda internazionale, molto più di quello che si pensi. Inoltre, cibo e questione agricola sono legate alle politiche locali ed europee. Ad esempio, è sempre più stretto il rapporto tra agricoltura locale e commercio internazionale. Nonostante l’impatto economico possa sembrare limitato sui volumi generali del commercio (nuove tecnologie, per esempio), l’agricoltura è la causa principale dello stallo dei più importanti negoziati commerciali internazionali. Basti pensare che quando gli Usa hanno aperto al commercio agricolo internazionale, hanno dato vita contestualmente al WTO. Anche in tempi recenti, il commercio internazionale, trainato dal settore agricolo, è stato tra i motori principali dello sviluppo per molte economie extra-europee. La stessa Italia, malgrado la crisi, trae innegabili benefici dalla crescita economica legata al rilancio del settore alimentare, sull’onda della valorizzazione dei prodotti regionali e del Made in Italy. Oggi i Paesi emergenti, sempre più grandi esportatori, sono molto aggressivi in campo agricolo (Brasile e Argentina rigettano anni di protezionismo) e riescono ad alzare la voce al tavolo delle trattative. Altri Paesi continuano a mantenere politiche protezionistiche (come l’India). La costante è che si riscontra una forte influenza dell’agribusiness sui negoziati, in uno scenario dominato da cartelli fatti di pochi, grandi conglomerati globali a decidere per tutti.

 

Mercati agricoli e lavoro tra oligopoli ed asimmetrie informative

La concentrazione di poche imprese multinazionali e trader nei processi decisionali delle politiche in campo agricolo è una delle evidenze principali in tema agricolo: secondo uno studio della Campagna di Riforma della Banca Mondiale, il solo 14% dei competitori nel mercato agricolo globale influenza la quasi totalità dei prezzi. Questo crea instabilità e produce uno squilibrio democratico e distributivo, concentrandosi sia le decisioni che i profitti, con forti ricadute sociali. Il rapporto agricolo tra produttori e consumatori, storicamente semplice da disciplinare, oggi si è complicato notevolmente, rendendone ardua la disciplina. L’allontanamento è diventato prima fisico, poi anche temporale: l’industrializzazione dell’agricoltura, i processi produttivi su larga scala, l’affermarsi della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e la globalizzazione del mercato agricolo hanno indotto il prodotto a viaggiare moltissimo, nello spazio e nel tempo. La deperibilità dei prodotti agricoli stagionali implica un abbondante uso di conservanti e antiparassitari che accompagnino e proteggano questi lunghi viaggi, consentendo di ottenere grandi quantità da produrre e trasportare, nonché bassi costi di produzione; purtroppo, però, queste sostanze si sono spesso rivelate tossiche per il lavoratore, il consumatore, o le terre, rendendo più difficili le future coltivazioni.

La domanda spontanea è quindi: perché i contraenti continuano a produrre e acquistare beni agricoli dannosi e insostenibili? Innanzitutto perché non lo sanno, perché esiste un problema di asimmetria informativa. Un tempo riguardava solo il consumatore, che disponeva di informazioni minori sul prodotto; qui la legislazione in tutto il mondo ha fatto dei progressi interessanti, introducendo obblighi di etichettatura, tracciabilità della filiera produttiva, trasparenza sulla qualità del prodotto. Nonostante ciò, permane una situazione di disparità di informazioni tra i due contraenti, restando il consumatore contraente debole. La novità risiede nel fatto che anche il piccolo produttore spesso non ha a disposizione tutti gli elementi per conoscere la nocività delle materie utilizzate, senza comprendere gli effetti che possono avere su se stessi, sulla terra e sul consumatore finale. Per i prodotti alimentari complessi, nella stragrande maggioranza dei casi il bracciante non riesce nemmeno a intravedere la fine della lunga catena della filiera produttiva. Lo stesso vale per i piccoli produttori di materie prime coloniali (ad esempio il caffè o il cacao). Costoro ignoreranno il processo produttivo e il perché devono sforzarsi di far produrre tanto di più alla manovalanza e alla terra, con gravi rischi di sicurezza per entrambi, che vedono spesso coinvolti conglomerati industriali del settore alimentare, a violazione delle normative ambientali e sulla salute e sicurezza sul lavoro. Una seconda risposta al perché i produttori continuino a produrre e i consumatori ad acquistare tali beni è: perché non sono più loro a decidere. Emerge un nuovo contraente forte sul mercato: l’intermediario. Compratore di tonnellate di beni agricoli a basso costo, che diventa a sua volta rivenditore massiccio di beni alimentari di bassa qualità da smerciare rapidamente al 3×2 nella GDO. Il meccanismo sfugge a tutte le legislazioni di settore e nazionali, che non possiedono la scala adeguata per arginare questi fenomeni globali. Fenomeni che violano al tempo stesso i diritti dei produttori per le condizioni di lavoro e dei consumatori per la dannosità del prodotto finale scadente.

Spesso le piccole aziende agricole locali, che vendono la materia prima grezza o semilavorata, hanno un solo grande compratore, che detiene molte informazioni in più rispetto a loro, e che il più delle volte riesce a controllare i processi produttivi, oltre ovviamente al prezzo della negoziazione sui mercati internazionali. Questo avviene perché il mercato locale non può assorbire tutta l’ampia produzione che è stata sollecitata, e perché quasi sempre il territorio non possiede know-how e macchinari necessari per la trasformazione finale, che il mercato globale aspetta. Perciò, il cartello di compratori finisce per rappresentare l’unica alternativa possibile per il produttore locale. Questi, imponendo prezzo e qualità della produzione, diventano i veri decisori del segmento di mercato. Il mercato subisce dunque una strozzatura a monte, tra tanti produttori senza tutele nel sud del mondo, che vendono a pochi cartelli globali, ed un imbuto a valle, tra gli stessi conglomerati che rivendono ai tanti consumatori inconsapevoli nel nord del mondo. Piccoli produttori e consumatori finiscono per non beneficiare degli ampi canali di sbocco generati dall’apertura dei mercati internazionali, a causa di questi fallimenti del mercato (la concorrenza insufficiente e la carenza d’informazione); in queste dinamiche, le vaste opportunità offerte dal commercio internazionale, sono godute solo dagli intermediari.

Il fenomeno a cui assistiamo in questo settore è il graduale affermarsi dell’oligopsonio, ovvero la concentrazione di pochi compratori di un determinato prodotto e il loro conseguente aumento del potere decisorio. Il fenomeno è la seconda faccia dell’oligopolio: in alcuni casi è direttamente la GDO a comprare il prodotto all’ingrosso dai piccoli imprenditori agricoli per poi rivenderlo nei supermercati. La riduzione della taglia, del numero e della voce degli interlocutori sul mercato transnazionale crea la strozzatura di cui si parlava, che rende meno fluido il commercio dei beni della terra e meno trasparente il controllo.

 

Il dibattito sugli OGM e la sovranità alimentare

Dentro il macrocosmo della tutela del produttore e del consumatore nel settore agricolo, non possiamo ignorare il microcosmo della disciplina degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), sui quali tanto si è detto, a livello scientifico quanto mediatico, sia in modo respingente che in modo accogliente. Parte della dottrina, della classe politica e di quella dirigente si sono espresse per un severo controllo, altri per una cauta apertura, soprattutto in prospettiva di futuri benefici per l’agricoltura. Resta nell’opinione pubblica una gran confusione, e il consumatore italiano medio finisce strangolato tra acquisizione inconsapevole e passiva di alimenti OGM, e campagne catastrofiste dei mezzi di comunicazione, che generano solo paure e disinformazione.

In un primo momento l’UE ha vietato la produzione e la commercializzazione dei prodotti OGM, con una moratoria di fatto durata per tutti gli anni Novanta e i primi Duemila; successivamente, l’UE ha avviato una graduale apertura, fondata sullo stretto rispetto del “principio di precauzione”. In base a tale principio, la direttiva 2001/18/CE permette la coltivazione di prodotti geneticamente modificati negli Stati membri dell’UE, previo parere positivo sulla loro sicurezza da parte dell’EFSA. L’autorizzazione per la coltivazione di OGM è tuttavia limitata e può essere revocata se, nel corso della fase sperimentale di produzione, emergano evidenze di danni ambientali o di salute dei consumatori. Attualmente sul mercato europeo sono presenti 58 prodotti transgenici. Si riscontra una diversa accoglienza delle sperimentazioni negli Usa: giuridicamente questa scelta “politica” viene difesa col principio per cui “si può produrre (e quindi vendere) qualsiasi cosa, fino alla prova che questa cosa faccia male alla salute”. Da noi europei questo principio viene ribaltato in “si può produrre (e vendere) tutto ciò che è stato provato che non faccia male alla salute”. Non è solo un “anticipo della prova”, ma è anche un ribaltamento dell’onere preventivo sul produttore-venditore, che deve dimostrare la non dannosità.

Gli OGM per il momento rappresentano per gli agricoltori un rischio di perdita della sovranità alimentare. I gruppi che ne difendono i brevetti, come ad esempio la Monsanto, hanno recentemente ricevuto sanzioni molto pesanti in Europa, per i danni causati agli agricoltori e per la pubblicità ingannevole riversata sui consumatori. Tuttavia, non si possono ignorare le gravissime situazioni di sottonutrizione e insicurezza alimentare patite in vaste porzioni del pianeta, nelle quali gli incrementi demografici tendono da anni all’ampio rialzo. Per queste ragioni, e per il grande potenziale che significherebbero in termini di sostenibilità ambientale ed efficienza produttiva, non possiamo tralasciare l’importanza che può essere rivestita da un corretto uso di tali organismi. Cercando di volgere alla ricerca e all’informazione più complete, ed evitando ogni sorta di preclusione ideologica, va detto che con ogni probabilità gli OGM rappresenteranno nuove frontiere per la ricerca e la biotecnologia, di cui oggi disponiamo conoscenze non del tutto esaustive; tale avanguardia non potrà, tuttavia, prescindere dalla centralità della salute di lavoratori e consumatori e dalla preservazione dell’integrità ambientale.

Mentre il futuro della sperimentazione transgenica appare contraddittorio, una parte significativa del mondo scientifico si sta dedicando allo studio ed utilizzo della biodiversità naturale. Ciò potrebbe consentire di puntare a livello locale su produzioni Made in Italy di qualità, valorizzando la tradizionale biodiversità dei territori. L’Agricoltura Biologica, pur essendo ancora una nicchia, raggiunge oggi consensi crescenti: basti pensare che è sostenuta con oltre 200 miliardi di euro dall’UE attraverso i Piani di Sviluppo Rurale delle Regioni 2007-2013, con pagamenti agroambientali obbligatori e prioritari, atti a compensare i minori redditi e maggiori costi per gli agricoltori, più un 20%, per il beneficio sociale complessivo che ne deriva. L’agroecologia di coltivatori tradizionali e moderni sarebbe sufficiente a sfamare due volte l’intero pianeta, soprattutto se teniamo conto l’impatto ambientale che sottende all’agricoltura industriale dei cartelli. Gran parte degli agricoltori e allevatori europei è indebitata con le banche, che obbligano a produrre di più per ripianare i debiti. Non solo orientano la produzione, ma il raccolto non compensa i costi e i debiti aumentano, finché la banca non vende la terra dei contadini per rientrare del credito. In Italia 800.000 agricoltori hanno chiuso la loro attività negli ultimi dieci anni, arrivando oggi a rappresentare meno del 3% della popolazione italiana. Con la riforma medio termine della PAC, avremmo circa venti miliardi di euro disponibili per questa conversione colturale e culturale.

Il punto centrale non è solo il modello di produzione agricola biologica, ma il tema più ampio della sovranità alimentare, il diritto degli agricoltori di decidere cosa produrre sulla loro terra, senza dover accettare scelte calate dall’alto; ciò si collega al diritto dei consumatori di scegliere cosa consumare in modo sano senza subire influenze e ingerenze mediatiche né asimmetrie informative. Oggi invece ci troviamo di fronte ad un allontanamento graduale tra produttore e consumatore e tra produttore e prodotto finito su scala globale. Le masse di coltivatori diretti, braccianti, dipendenti delle big farm dell’agribusiness, spesso non hanno quasi idea del prodotto finito che arriverà al termine della lunga filiera produttiva. Questa distanza è diventata siderale tra le persone stesse e tra le persone ed i prodotti del loro lavoro, e quando queste distanze riguardano il lavoro della terra, tutta la filiera diventa insostenibile.

 

Questioni aperte e interdipendenze

Il primo legame è tra agricoltura e salute: controllare e regolamentare la qualità della produzione agricola incide direttamente sulla qualità della vita. Il riferimento non è solo alle normative internazionali in campo sanitario, che non sono state in grado di evitare le epidemie che si sono susseguite negli ultimi anni, soprattutto nei Paesi poveri, e che sono arrivate a contagiare anche l’UE; occorre pensare anche alle conseguenze che ha avuto e che avrà la disciplina degli allevamenti animali, che spinti dalla necessità di produrre quantità inimmaginabili pochi anni fa, hanno perso il controllo della filiera, causando fenomeni come quello della mucca pazza, l’emergenza sanitaria da colibatteri nelle Big farm per i fast food USA, e tante altre.

Lo squilibrio dei prezzi sui mercati agroalimentari si ripercuote sul rapporto tra agricoltura e lavoro. C’è una forte spinta al ribasso degli standard del lavoro nel settore agricolo, sia per la retribuzione, che per la sicurezza e salute sul lavoro, per l’uso di sostanze tossiche, che se anche incrementano le quantità prodotte, sono dannose per il lavoratore e per la terra. Col diffondersi della logica del contract farming si produce un precariato strutturale, che nel nostro sud Italia si trasforma spesso in casi gravissimi di sfruttamento medioevale della manodopera immigrata non regolarizzata e quindi ricattabile. Gli strumenti di inclusione sociale e accesso al credito, come i programmi di microcredito e finanza etica, sono in ascesa nel sud e anche nel nord del mondo; la risoluzione dei problemi legati al decentramento produttivo e alla tutela della dignità umana discusse segnerà il successo definitivo di questi programmi.

Se si prova a ragionare sulle cause di questi fenomeni, si arriva a comprendere che la recente crisi alimentare è dovuta principalmente al rapporto tra agricoltura e finanza, ed in particolare alle speculazioni transnazionali. Si calcola che almeno il 30% dell’aumento dei prezzi in campo agricolo del 2007-2008, e ancor più nel 2009-2012, sia stato causato dalle speculazioni internazionali. L’incremento degli investimenti nel settore dei derivati collegato a commodity agricole è stato esponenziale. Dopo il crollo del settore immobiliare e dell’investment banking, oggi c’è di nuovo grande attenzione su petrolio e derrate agricole. Sarebbe fondamentale per uscire dalla crisi un diverso ruolo della finanza nell’accesso al credito e alle assicurazioni in zone rurali, dove ci sono garanzie sempre minori e maggiori volatilità. Va ricordato, infatti, che il fenomeno della microfinanza nasce in contesto rurale, e anche in Italia deve essere riconosciuto il ruolo storico delle casse rurali.

Andamento dei prezzi del cibo a livello mondiale negli ultimi anni secondo la FAO.

Andamento dei prezzi del cibo a livello mondiale negli ultimi anni secondo la FAO.

Il rapporto tra cibo e terra ci riporta alla questione sociale, sempre più esplosiva. La reale applicazione delle politiche di riforma agraria manca in molti paesi (si pensi al Brasile), con conseguenze principalmente pagate dai popoli indigeni. Intanto, in molti sud del mondo, si propaga il fenomeno del land grabbing, che consiste nell’accaparramento di ampi appezzamenti di terra da parte di cartelli industriali industriali e governi a danno dei piccoli coltivatori. Questa pratica, definita come una nuova forma di colonialismo, ha trovato consensi tra i Paesi emergenti, e si è localizzata soprattutto in vaste zone dell’Africa sub-sahariana. Nel nord del mondo l’agricoltura si sta caratterizzando per nuove e diverse forme di gestione del territorio (dal biologico, all’agriturismo su piccola scala, agli orti urbani), nate come reazione al rapporto cibo-terra divenuto snaturato, ma queste esperienze virtuose restano di nicchia malgrado il consenso raggiunto; tuttavia, molte colture afferenti a queste tecniche si caratterizzano per indici di produttività bassi, che implicano una scarsa incidenza sul comparto agricolo. Il grosso della produzione agricola resta ancora fortemente industrializzato. L’obiettivo è il rilancio dei prodotti, dei saperi e delle tradizioni alimentari locali, accompagnati dall’accorciamento della filiera produttiva. L’Italia vanta un’antica tradizione anche in questo riguardo, che risale alle prime cooperative agricole e al mutualismo dell’Ottocento. La lezione si è tradotta oggi in un più vasto movimento che vede come capisaldi realtà molto diverse tra loro, da un lato organizzazioni come Slow Food, precorritrice dei precetti di sviluppo sostenibile nel settore agroalimentare (buono, pulito e giusto), dall’altro un impero giovane come Eataly, capace di rilanciare il mercato e la consapevolezza sulle eccellenze agroalimentari italiane nel Paese e nel mondo (mangi meglio, vivi meglio).

Non sfugge ormai ai ricercatori di tutto il mondo la relazione tra cibo e cambiamento climatico. La produzione agricola emette oggi il 10-15% di CO2 del pianeta, ed incide sul totale sempre più. L’incremento di produttività agricola è stata pagata da un forte aumento di emissioni nocive e, parallelamente, a una riduzione di capacità di assorbimento dei suoli. Il rapporto tra i due temi è bidirezionale, perché non solo la produzione di cibo incide sull’effetto serra e sull’equilibrio del clima, ma anche al contrario l’impatto del climate change è veramente forte sull’agricoltura, e si esaspererà ancora di più.

Volendo ulteriormente allargare lo sguardo per una visione di insieme sui mercati agricoli, appare evidente il legame tra cibo e governance globale. Quello che succede nel settore agricolo è un caso emblematico dello scontro di governance in ambito ONU versus altre sedi (come IFI, WTO, G8, G20): si stanno spostando gradualmente i luoghi delle decisioni reali in campo agricolo. La tendenza preoccupante porta a tavoli sempre più ristretti, meno multilaterali, e meno trasparenti. Con la crisi alimentare si accentua una forte pressione sulla FAO per ridurre ulteriormente il suo ruolo, e c’è uno scontro in atto sul nuovo potere da attribuire alla Banca mondiale e al Fondo Monetario Internazionale.

Il passaggio logico seguente è la crisi del rapporto tra cibo e democrazia: chi controlla veramente il mercato del cibo, decide in sostanza i processi globali. In merito al Codex alimentarius (organi tecnocratici che decidono gli standard) bisognerebbe chiedersi: chi decide davvero gli standard dei prodotti? Chi i prezzi agricoli? Cosa va prodotto e utilizzato in un territorio? Il discorso sarebbe da estendere a quello di povertà, e alla soglia internazionale dei due dollari per giorno.

In conclusione, oggi non è possibile per un analista del ramo agroalimentare fotografare e approfondire solo la disciplina specifica di settore. Con le “interdipendenze” tematiche evidenziate e con le interdipendenze tra paesi, ormai indissolubilmente collegati tra loro, qualsiasi intervento normativo ed economico in campo agricolo deve tener presente le implicazioni con gli altri livelli. Pertanto, insieme alla fine dei compartimenti stagni tra le materie descritte, è necessario rendersi conto anche del legame locale/globale e viceversa.

 

Per approfondire

  • Briganti R., Il diritto alla terra verso un’agricoltura sostenibile, in Miletti A., Ciancio M. (a cura di), Impresa agricola e sicurezza alimentare, ESI, Napoli, 2009;
  • Fanfani R., L’agricoltura in Italia, Il Mulino, 2000;
  • FAO, The State of Food and Agriculture, 2014;
  • Gatto A., Polselli N., Bloom G., Lo sviluppo rurale nell’agenda internazionale: il ruolo di una microfinanza e di mercati rurali sensibili alle questioni di genere in Asia centrale, in “FUTURI” vol. I, n. 3, 2014;
  • Liberti S., Assalto alla terra: le conseguenze del land-grabbing, in “FUTURI” vol. I n. 1, 2013;
  • Shiva V., Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio, Feltrinelli, Roma, 2015;
  • UN, The Millennium Development Goals Report, 2014.

 

About Renato Briganti

È membro del Comitato Scientifico del CED. È ricercatore di Istituzioni di Diritto Pubblico, Diritto dell’Ambiente e già Diritto della Cooperazione presso l’Università di Napoli “Federico II”. È membro del comitato direttivo di Mani Tese Campania, di cui è stato presidente.

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