Il modello di sviluppo asiatico: spunti per un capitalismo etico tra crescita e benessere

In appena trentanni, il Giappone e in seguito le quattro Tigri asiatiche Taiwan, Corea del Sud, Singapore ed Hong Kong sono riuscite a incrementare il loro reddito fino a otto volte il valore originario, attraverso politiche temperate di crescita export-led e strategie improntate sulla formazione, l’innovazione e gli investimenti industriali, associate a una bilanciata distribuzione dei redditi ed uno sviluppo sociale che hanno fatto parlare di “miracolo asiatico”. Cosa possiamo imparare da quest’esperienza?

Il successo conseguito dalle economie dell’Estremo Oriente a partire dal secondo dopoguerra ha destato interesse scientifico per la rapidità della crescita e la bontà dei risultati sociali ottenuti. Successivamente al secondo conflitto mondiale, le Tigri asiatiche si presentavano ancora come economie in ambasce: la povertà era diffusa, l’alfabetizzazione ancora flebile malgrado l’impronta educativa di matrice nipponica, il reddito medio pro capite incomparabile agli standard occidentali. Nel giro di trentanni, tali realtà sono riuscite a invertire questi trend, assicurando un aumento omogeneo del reddito alle popolazioni. In questo arco temporale, attraverso politiche temperate di crescita export-led e strategie improntate sulla formazione, l’innovazione e gli investimenti industriali, il Giappone e in seguito le quattro Tigri asiatiche Taiwan, Corea del Sud, Singapore ed Hong Kong, sono riusciti a portare l’incremento del reddito fino ad otto volte il valore originario, agganciando a inizi anni ‘90 il blocco occidentale e consolidando eccellenze nel campo della produzione tecnologica. In particolare nel trentennio 1950-1980, per il primo gruppo di economie del flying geese pattern si registrarono alti tassi di crescita della produzione, associati a una bilanciata distribuzione dei redditi ed uno sviluppo sociale che hanno fatto parlare di miracolo asiatico. I risultati hanno chiamato anche i teorici meno inclini a modellistiche divergenti dal capitalismo alla occidentale a dover riconoscere la bontà dei percorsi battuti dalle realtà asiatiche, così come l’effettivo conseguimento del catching-up economico e tecnologico della cosiddetta prima linea di economie del modello a stormo d’oca nei confronti dell’oca maestra, il Giappone. L’attenzione destata dalla modellistica ha, tuttavia, subito un immotivato rallentamento, in ragione dei risultati del decennio ‘90, durante il quale si registrarono maggiori scostamenti all’interno della regione, scaturiti principalmente dai rivolgimenti finanziari ed economici di Giappone e Corea. Tuttavia, malgrado gli accadimenti degli ultimi lustri, su tutti il Decennio Perduto giapponese e la crisi finanziaria asiatica del 1997, il successo delle repubbliche dell’Estremo Oriente ha di fatto consolidato la posizione guadagnata da queste nuove espressioni economiche nel contesto internazionale.

Al di là degli scostamenti dei risultati misurati all’interno dell’area, al percorso orientale va riconosciuto il merito di aver elaborato una nuova concezione di governo: lo stato burocratico sviluppista. Attorno a questo apparato, matrice dei principali fattori di successo e debolezza del sistema, si è plasmata una struttura societaria fondata sull’apprendimento e sul lavoro, manifestazione dei principi etici ed ecologici delle antiche filosofie asiatiche. Questa impostazione concettuale trovava riscontro in politiche industriali strategiche, volte all’espansione tecnologica e a un protezionismo flessibile, congiuntamente ad un’attenzione crescente rivolta all’incremento della qualità della vita: attraverso la protezione dell’industria nascente, il sostegno dei campioni locali e, al contempo, lo sprone attribuito alle esportazioni, si assicurava una crescita interna della produzione e della ricchezza dei cittadini della regione che si è tradotta, negli anni, in un benessere diffuso. In questo modo si realizzava quella sinergia tra settore pubblico e privato e quella fitta cooperazione tra le stesse imprese, fondamentale per l’implementazione del network e degli investimenti necessari all’incremento tecnologico e innovativo. Tali risultati passavano per la creazione di cluster, distretti industriali, aree economiche speciali e parchi scientifici e industriali che in molte delle realtà dell’Est asiatico vedevano, seppure in misure differenti, la partecipazione dello stato come co-attore economico, sostenuto tendenzialmente da una larga presenza di capitali privati.

Fonte:csis.org

In questo contesto, va sottolineato che dietro ad un apparente comune sistema capitalistico, l’architettura motivazionale costituitasi, pare aver digerito ben più delle mere dinamiche efficientistico-produttiviste: legando il suo sviluppo socio-economico a principi etici, la regione ha imperniato il successo della modellistica su una propensione alla lealtà, strategica e partecipativa, che ha trovato la sua massima espressione nel codice di comportamento sul posto di lavoro, sprone significativo al fermento imprenditoriale regionale e, congiuntamente agli incrementi in tecnologia, agli incrementi in produttività. In questa intelaiatura, senso civico, rispetto ed onestà trovavano riscontro in una società che attribuiva grande peso alle relazioni sociali. È unanimemente riconosciuto l’apporto tratto dalle filosofie classiche orientali: in linea con la dottrina, in primis confuciana, la propensione storica dei governi orientali si è indirizzata alla  formazione, rendendo l’apprendimento perno del percorso di affermazione globale. Metodologicamente, invece, è attraverso economie esterne e spillover di conoscenza che si sono potute innescare le economie di apprendi-mento. Nel corso degli anni, questo fattore ha continuato ad essere portante nella struttura dell’Est asiatico, chiamando le repubbliche ad un continuo supporto. È questo il caso di Giappone e Corea del Sud che, anche con le severe crisi degli anni ‘90, hanno sempre dedicato una porzione consistente del PIL alla spesa in formazione e R&S: basti pensare che nel quinquennio 2008-2012 le due repubbliche ne hanno destinato una percentuale mai inferiore al 3,35 per cento del PIL, consolidandosi tra i primi cinque investitori al mondo. Date le assunzioni, va detto che, epuratasi dagli autoritarismi che ancora ne-gli anni ‘70 e inizi ‘80 inficiavano il corretto sviluppo dei fattori politici e con l’apertura verso i sistemi democratici e le dinamiche consolidatesi in Europa tipiche della rilettura del confucianesimo contemporaneo, l’area asiatica si è prestata a generare quel neologismo di primo acchito ossimorico, noto all’accademia come capitalismo confuciano, in riferimento alla commistione tra economia capitalistica e antica cultura asiatica. È possibile stabilire che il prodotto della filosofia orientale, disegnando schemi economico-sociali alternativi a quelli tradizionali, non solo a livello teoretico, ma anche sul piano sostanziale di politiche industriali mirate, è riuscita ad andare oltre i risultati degli apparati consolidati, confermando l’importanza delle risorse immateriali nel percorso di sviluppo.

Non è un caso che il pattern asiatico, una volta contaminato da politiche semplicistiche calate dall’alto come rimedi onnicomprensivi agli errori del policy making – e del mercato – , abbia visto, quanto meno parzialmente per determinati contesti, erodere i successi conseguiti con dovizia dalle amministrazioni locali. Da un lato, le difficoltà subentrate a seguito di una burocratizzazione in esubero, la dipendenza dal capitale estero e lo squilibrio degli investimenti privati, dall’altro, le chimere esibite dalle ormai note riforme strutturali dettate dal FMI, hanno spinto, sebbene in misure differenti, parte delle realtà asiatiche a confutare la coerenza politica che ne aveva contraddistinto i cammini, con il frequente risultato di determinare peggioramenti al sistema economico, più che apportarne giovamenti, in ragione della subordinazione a sistemi estranei e poco conciliabili con la logica con la quale si erano costituiti. Precorrendo l’attuale crisi, l’evento ha confermato l’inefficacia della decontestualizzazione di ricette universali di politica economica e il fatto che, malgrado la necessità di un’accorta semplificazione normativa finalizzata a migliorare il funzionamento e predisporre il fermento del mercato, i mercati finanziari non possono essere epurati dai controlli, in particolar modo per quel che concerne i movimenti a breve termine.

Bisogna, quindi, chiedersi: l’Occidente può cogliere l’esperienza dell’Est asiatico come momento di riflessione ed accorgimento delle proprie criticità? In che modo trarre beneficio e interagire con le esperienze di altri contesti nel futuro? Il caso dell’Estremo Oriente ha segnato il successo dello stato sviluppista e ha mostrato al mondo l’importanza delle riforme e dell’assestamento agrario nel quadro del percorso di sviluppo di un paese. Grazie alla commistione tra politiche industriali di spinta dell’azienda locale e una prudente apertura al commercio estero, il Giappone e i Dragoni asiatici hanno potuto godere di elevati livelli di sviluppo senza dover assistere a forti sperequazioni del reddito tra i cittadini, in linea con un’impostazione flessibile di protezionismo. Nel trentennio del grande sviluppo si diffuse, soprattutto a Taiwan, il ricorso alle economie esterne e agli spillover di conoscenza, in particolare quando le strutture locali si mostravano ancora immature per cogliere la sfida lanciata. Alla priorità dell’alfabetizzazione hanno fatto seguito risultati economici globalmente più ampi di quelli conseguibili nel breve termine con una semplice redistribuzione del reddito, assurgendo a fattori imprescindibili nel suggellare negli anni lo sviluppo asiatico. L’industrializzazione di stampo asiatico, orientata all’esportazione tecnologica e condotta da governi favorevoli a stimolare il settore privato, è stata in grado di stravolgere la vita economica dell’area del Pacifico, portandola in pochi anni a presentarsi come attore dello scenario globale. La crescita raggiunta è stata un successo ottenuto costruendo le giuste basi economiche e tecnologiche propedeutiche all’implementazione di settori produttivi all’avanguardia, in ossequio ai principi di economicità; in questo quadro lo Stato non ha funto solo da cornice per l’apparato economico, ma nell’orientare il mercato, ha saputo miscelare indirizzi di protezionismo a politiche di apertura. In questo modo, oltre a coadiuvare lo svolgimento dell’azione economica tra i suoi attori, si sono garantiti livelli considerevoli di sviluppo umano all’intera regione, l’eradicazione della povertà diffusa, l’innalzamento dei tassi di scolarizzazione e una distribuzione bilanciata dei redditi, nei limiti dell’espansione e dell’equità, assicurando stabilità macroeconomia, bassi tassi di disoccupazione e tenendo, generalmente, a freno l’inflazione. Malgrado gli errori di percorso e le debolezze insite nel sistema, alla luce di questi risultati il modello dello stato sviluppista asiatico e l’inclinazione etica del capitalismo confuciano possono costituire non solo un importante spunto per le economie in fase di industrializzazione, ma anche argomento di rivisitazione per l’impostazione socio-economica occidentale del domani.

Approfondimenti
Abramovitz M., The Journal of Economic History Vol. 46, No. 2, The Tasks of Economic History (Jun., 1986).            Chang H. , Industrial policy in East Asia: Lessons for Europe, “EIB Papers”, Vol. 11 n. 2, 2006.
Kasahara S., The Flying Geese Paradigm: A Critical study of Its Application to East Asian Regional Development, United Nations Conference on Trade and Development, Discussion Paper n. 169, aprile 2004.
Morishima M., Why Has Japan ‘Succeeded’? Western Technology and the Japanese Ethos. Cam- bridge University Press, NY, 1984.
Stiglitz J., Some lessons from the East Asian miracle, “The World Bank Research Observer”, Vol. 11 n. 2, 1996.
Wang J.H., From technological catch-up to innovation-based economic growth: South Korea and Taiwan compared, “The Journal of Development Studies”, Vol. 43 n. 6, 2007.

About Andrea Gatto

Presidente del Center for Economic Development & Social Change ed editor-in-chief della Rivista "Sviluppo, Sostenibilità, Innovazione Sociale". È Visiting Research Fellow presso il CREATES - Università di Aarhus (DK), nonché PhD in Statistica e Sostenibilità all’Università di Napoli “Parthenope”. I suoi interessi di ricerca includono il nesso tra sviluppo e sostenibilità, la politica e la regolamentazione energetica ed agraria, la vulnerabilità e la resilienza, l'agenda dello sviluppo e gli SDGs, e la microfinanza, esaminati in un'ottica storica di lungo termine, di analisi del ciclo economico e degli indicatori compositi.

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