Le conseguenze della Brexit: stime e previsioni all’indomani del referendum che ha scosso l’Unione Europea

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Lo scorso 23 giugno i cittadini del Regno Unito sono stati chiamati a esprimere il loro parere sulla permanenza nell’Unione Europea attraverso un referendum consultivo indetto dal primo ministro David Cameron. L’esito del referendum, inaspettato e quanto mai insperato, ha visto la vittoria del leave con il 51,9 per cento. I risultati del referendum hanno messo fine a una campagna molto accesa che ha visto confrontarsi due schieramenti opposti e trasversali. A sostegno del remain, David Cameron, che si è prodigato in una campagna attiva per la permanenza nell’UE. Con lui, il leader del labour party Jeremy Corbyn, che ha difeso le ragioni del remain con poco impegno e scarsa convinzione, motivo per cui molti gli rimproverano di non esser stato capace di intercettare i voti della working class, un elettorato tradizionalmente laburista che ha votato in massa per l’uscita dall’Unione. D’altra parte Corbyn, che non è mai stato un convinto europeista, ha dovuto sostenere le ragioni del no per l’unità del partito, che oggi si sta sgretolando proprio a causa del referendum. Lo schieramento opposto, a sostegno dell’uscita del Regno unito dall’UE, ha raccolto molti esponenti del partito conservatore (lo stesso di Cameron), tra i quali l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, il partito populista UKIP(United Kindgdom Indipendence Party) nella figura di Nigel Farage, oltre a esponenti dello stesso partito laburista. Una campagna dunque animata da diverse voci, accomunate da visioni contrapposte sull’Unione Europea: l’importanza di rimanervi o la necessità di uscirne.

L’idea di un referendum sulla permanenza dell’UK nell’Unione Europea era in discussione in molte campagne elettorali già da diversi anni. Nella scorsa campagna elettorale per le elezioni generali del maggio 2015, il primo ministro uscente David Cameron aveva promesso ai cittadini una consultazione sulla permanenza nell’UE, probabilmente per intercettare parte dell’elettorato dello UKIP (in ascesa nei sondaggi) che aveva fatto di questo referendum il perno del suo manifesto elettorale. Gli argomenti al centro del dibattito sono stati soprattutto l’immigrazione, il commercio con gli altri paesi, la burocrazia e le politiche “imposte” da Bruxelles, nonché i costi che il Regno Unito deve sostenere per far parte dell’Unione Europea.

Il Regno Unito nel 2015 contribuiva per il 12,6 per cento al bilancio dell’Unione Europea. Al netto dei fondi che il Regno Unito riceve dall’UE, il contributo è stato di circa 8 miliardi di sterline, che rappresentano lo 0,45 per cento del PIL (HM Treasury): una cifra davvero irrisoria, se comparata ai vantaggi derivanti dall’accesso al mercato unico. La campagna per il leave ha proposto di destinare questi fondi ad altri servizi pubblici, per esempio il servizio sanitario nazionale. All’indomani del referendum, molti esponenti del leave hanno dichiarato che effettivamente non sarebbe facile recuperare queste risorse, vista la probabile contrazione che subirà il PIL britannico. Un altro punto focale della campagna ha riguardato il commercio internazionale: l’idea supportata da molti investitori della Brexit è che svincolandosi dal lento processo di una decisione negoziata tra gli stati membri a Bruxelles, si avrebbe una maggiore libertà di negoziazione nei mercati internazionali. Quest’opportunità dovrà essere pesata e controbilanciata a costo di ridefinire i rapporti con l’Unione Europea sull’accesso al mercato unico. Al 2014, le esportazioni del Regno Unito verso l’Area Economica Europeaammontavano a 237 miliardi di dollari (Observatorium of Economic Complexity), circa il 50 per cento del totale delle esportazioni britanniche. Il bilancio di questi rapporti commerciali sarà totalmente soggetto alle negoziazioni che seguiranno quando il Regno Unito farà valere la clausola dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona. Tuttavia, il vero punto focale che ha rappresentato probabilmente l’ago della bilancia nella decisione di voto è quello dell’immigrazione. Molti cittadini britannici hanno probabilmente votato per uscire dall’Unione Europea preoccupati dal crescente fenomeno migratorio che ha coinvolto anche il Regno Unito. Un tema delicato, che ha segnato il fragile equilibrio dell’Unione Europea negli ultimi tempi. D’altra parte, l’immigrazione nel Regno Unito ha rappresentato una crescente disponibilità di capitale umano impiegato soprattutto nei servizi finanziari della City: se l’esito dei trattati dovesse prevedere regole molto strette alla libera circolazione di persone, l’economia del Regno Unito potrebbe subire inevitabilmente un contraccolpo.

 

Il Regno Unito nel 2015 contribuiva per il 12,6 per cento al bilancio dell’Unione Europea. Al netto dei fondi che il Regno Unito riceve dall’UE, il contributo è stato di circa 8 miliardi di sterline, che rappresentano lo 0,45 per cento del PIL (HM Treasury): una cifra davvero irrisoria, se comparata ai vantaggi derivanti dall’accesso al mercato unico.

 

È difficile calcolare le conseguenze economiche della Brexit, almeno fin quando un’uscita vera e propria del Regno Unito non sarà definita dopo lunghi e sofferti negoziati. Per il momento, chi ha vinto davvero il referendum del 23 giugno è l’incertezza. Il Regno Unito all’indomani del voto è un paese profondamente diviso, con un governo dimissionario e con una grande incertezza sul futuro. Il destino economico del Regno Unito è inevitabilmente legato ai nuovi rapporti con l’UE, che si verranno a definire con una lunga serie di negoziati che avranno luogo quando il Regno Unito formalizzerà la sua richiesta di uscire dall’Unione Europea. Il Regno Unito potrebbe essere escluso dall’Unione Europea e aderire all’Area Economica Europea cui partecipano, oltre agli stati dell’UE, tre dei quattro paesi dell’EFTA, l’Associazione Europea di Libero Scambio, vale a dire Norvegia, Islanda e Liechtenstein. In questo modo potrebbe preservare l’accesso al mercato unico europeo, ma dovrebbe garantire anche la libera circolazione di persone: questo è stato uno degli argomenti più spinosi della campagna referendaria. Almeno fino al momento in cui i nuovi rapporti tra UK e Unione Europea saranno definiti, si assisterà a un clima di profonda incertezza che potrebbe portare le imprese a rimandare le loro decisioni di investimento nel Regno Unito, le famiglie a rimandare i consumi e legare i mercati finanziari a un destino di enorme volatilità. Il Fondo Monetario Internazionale ha ipotizzato due scenari. In un primo scenario, dove le negoziazioni procedono spedite per formalizzare un accordo, la sterlina perde il 5 per cento, la crescita per il 2017 viene rivista all’1,4 per cento e la disoccupazione sale in maniera contenuta. In un secondo scenario, nella previsione in cui i negoziati tardino a formalizzare un accordo (circostanza molto plausibile), la disoccupazione sale dal 5 al 7 per cento, i salari stagnano a causa dall’inaspettata inflazione e il Regno Unito entra in recessione a partire dal prossimo anno.

 

Il Regno Unito all’indomani del voto è un paese profondamente diviso, con un governo dimissionario e con una grande incertezza sul futuro. Il destino economico del Regno Unito è inevitabilmente legato ai nuovi rapporti con l’UE, che si verranno a definire con una lunga serie di negoziati che avranno luogo quando il Regno Unito formalizzerà la sua richiesta di uscire dall’Unione Europea.

 

All’indomani del referendum la sterlina ha toccato il minimo storico da 31 anni, raggiungendo quota 1.3224 dollari. Le quotazioni dei beni rifugio − come oro e altri metalli preziosi − sono aumentate notevolmente e gli spread nell’Eurozona tra i paesi GIIPS (Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna) e la Germania si sono allargati. Molti gruppi finanziari che si erano stabiliti nella City potrebbero cercare maggiore tranquillità all’interno dell’Unione Europea, spostandosi a Parigi, Francoforte o Dublino. Il risultato di tutto questo sarebbe una recessione che colpirebbe il Regno Unito come il resto del mondo.

Ad aggravare lo scenario economico sono le profonde divisioni politiche che il referendum ha generato nel paese. Il risultato del referendum ha portato all’annuncio delle dimissioni del primo ministro Cameron, in prima linea nel sostegno alla campagna per il remain. Le dimissioni del primo ministro hanno evidenziato anche le profonde lacerazioni nel partito conservatore, nel quale alcuni esponenti di spicco come Boris Johnson e Michael Gove − il guardasigilli britannico − erano alla guida della campagna per il leave. In aggiunta, il voto non ha diviso soltanto il partito conservatore: se si guarda alla mappa dei risultati del voto, si può notare come la Scozia abbia votato in blocco per rimanere nell’UE, così come gran parte dell’Irlanda del Nord. All’indomani del referendum, la primo ministro scozzese Nicola Sturgeon ha invocato la possibilità di indire un ennesimo referendum (dopo quello del 2014) sull’indipendenza scozzese dal Regno Unito. Anche il governo dell’Irlanda del Nord ha lasciando intendere la possibilità di indire un referendum sul modello scozzese per un Irlanda unita dopo 94 anni. Il referendum ha provocato un’enorme scossa all’unità dell’UK, concretizzando l’eventualità di una disgregazione di un regno unito da più di due secoli. In ultima analisi, le statistiche diffuse dopo il referendum hanno mostrato un paese diviso anche sotto il profilo intergenerazionale: secondo le statistiche diffuse da Yougov, il 71 per cento dei giovani tra 18 e i 24 anni ha votato per il remain, contro il 58 per cento degli over 65 che hanno votato per lasciare l’Unione Europea.

Da questo lato della Manica lo scenario non appare più roseo. La concretizzazione della Brexit ha minato la stabilità dell’Unione Europea: i leader del continente devono preoccuparsi di come arginare un contagio politico che potrebbe distruggere le fondamenta dell’Europa stessa. La strada tracciata dal referendum nel Regno Unito, infatti, ha risollevato l’ondata degli euroscettici in Europa. I leader dell’Unione Europea si trovano di fronte a un delicato trade-off nella definizione dei nuovi rapporti con Il Regno Unito. Da una parte si tratta di tranquillizzare i mercati e tutelare gli investimenti in UK, dall’altra, se l’Unione Europea non dovesse mostrare un atteggiamento risoluto nei confronti del paese uscente, il costo reputazionale sarebbe altissimo e i paesi che volessero seguire l’esempio del Regno Unito saprebbero di non avere dalla controparte un’azione deterrente sufficientemente efficace. Da una parte si tratta di dare un segnale forte ai mercati, dall’altra ai paesi membri; da una parte preservare il già fragile equilibrio politico, dall’altra parte dare stabilità di breve periodo all’economia. Di certo l’Unione Europea non può sottrarsi dall’esaminare seriamente le crescenti critiche all’interno degli stati membri, dal rivedere gli equilibri interni e dal far fronte alle crisi con una maggiore integrazione, a rischio di una dissoluzione inevitabile. Rivedere il concetto di governance all’interno dell’Unione è inevitabile in questo momento: solo in questo modo, nel medio periodo si potrà constatare se la strada giusta è quella dell’unità, di una vera unità, o dell’isolazionismo.

 

L’Unione Europea non può sottrarsi dall’esaminare seriamente le crescenti critiche all’interno degli stati membri, dal rivedere gli equilibri interni e dal far fronte alle crisi con una maggiore integrazione, a rischio di una dissoluzione inevitabile.

 

Nel discorso con cui ha annunciato le proprie dimissioni, Cameron ha paragonato il Paese a una nave che sta navigando in mezzo alla tempesta, cedendo l’onere del timone al prossimo capitano. È chiaro che il nuovo capitano non avrà vita facile: dovrà decidere se formalizzare immediatamente l’uscita al Consiglio Europeo o aspettare. Il prossimo primo ministro dovrà decidere se dar voce al popolo britannico, accettando il rischio di disgregare il Regno Unito, governare un’economia in recessione e ridefinire in interminabili negoziati tutti i rapporti con l’Unione Europea, o tradire il mandato e la volontà degli elettori. Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Per approfondire

About William Paris

Laureato in Discipline Economiche e Sociali all'Università Commerciale L. Bocconi, lavora per l'Autorità Europea dei Mercati Finanziari (Divisione Economia). Ha lavorato presso la Banca Europea degli Investimenti (Dipartimento Studi Economici) e per la Commissione Europea (Direttorato Affari Economici e Finanziari). Collabora con il Center for Economic Development & Social Change.

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