La fine del lavoro?

Vincenzo Moretti

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Viviamo con il cambiamento alle calcagna. Cambiano le relazioni tra le parole e i concetti con cui siamo soliti definire le stanze delle nostre vite quotidiane e il futuro che fino a ieri era soltanto un tempo è diventato anche un luogo. Cambia la partizione tra ciò che è certo e ciò che invece non lo è, cambiano le risposte alle domande su “ciò che vi è”, su “ciò che vale”, su “chi noi siamo”, cambia l’evidenza con cui il cambiamento accade. Cambiano i criteri che definiscono la qualità delle nostre vite, le opportunità che in esse riusciamo a cogliere, i bisogni e i desideri che riusciamo a soddisfare, tutti aspetti come mai prima correlati alla qualità e alla quantità di connessioni che riusciamo a stabilire con gli altri.

Cambia e diventa inscindibile la relazione tra libertà personali e libertà economiche. Cambia l’ordine di grandezza di dati, informazioni e conoscenza disponibili in ogni campo del sapere, cambia il loro rapporto con le vite delle persone e delle organizzazioni, cambia il valore e il potere, non solo economico, associato alla loro gestione. Cambiano le città e cambiano le mappe cognitive e fisiche che ne rappresentano le relazioni e l’intelligenza. Cambiano i modi, i tempi e i luoghi della socialità, della solidarietà, della competitività, della partecipazione. Cambia la relazione tra investimenti e occupazione, cambiano gli strumenti che possono favorire la creazione e la redistribuzione del lavoro e cambia il ruolo dell’intervento pubblico ai fini della creazione diretta di occupazione.

Cambia l’industria, quella che c’è e quella che verrà, che per adesso siamo soliti definire “internet delle cose” e “internet dell’energia”. Cambia il lavoro, quello legato alle nuove tecnologie e quello tradizionale, che riconquista una parte significativa della propria capacità creativa, si mostra più orientato all’innovazione, amplia – in maniera tendenziale e non omogenea – i fattori di autonomia e riduce quelli di dipendenza, realizza economie di scala e di scopo che producono vantaggi in termini di costo che normalmente, nella fase precedente, erano collegati alla produzione di massa.

Cambia l’organizzazione della produzione, le transazioni si fanno sempre più importanti, si diffonde e allarga i suoi confini l’organizzazione rete, intesa come insieme di network che permette a più attori, soggetti e organizzazioni di carattere pubblico e/o privato di condividere norme; di definire relazioni stabili, processi e rapporti di scambio durevoli; di perseguire interessi comuni sulla base di una struttura non gerarchica e interdipendente; di condividere e mediare obiettivi, significati, valori, senso, interessi; di effettuare transazioni.

Cambia il rapporto tra la domanda di competenze cognitive e interpersonali connesse alla capacità di comprendere, utilizzare e scambiare dati, informazioni e conoscenza e la domanda di competenze cognitive e manuali riferibili a procedure e mansioni di routine. Cambia e diventa più attivo il ruolo del “pubblico” nei processi legati all’informazione e alla conoscenza e ciò favorisce il passaggio, graduale e non lineare, dal “consumo” alla “produzione” di contenuti.

"Testa, mani e cuore" (2013) di Vincenzo Moretti.

“Testa, mani e cuore” (2013) di Vincenzo Moretti.

La tesi che intendo sostenere è che anche al tempo della rivoluzione scientifica prodotta dall’avvento di Internet, anche in questo nostro mondo in incessante trasformazione, la parola “lavoro” continua a essere un ponte verso la dignità, il rispetto, l’identità, il senso, l’autonomia e anche la competitività e lo sviluppo di fondamentale importanza, una vera e propria porta d’accesso al futuro. Detto in altri termini, il rispetto del lavoro e di chi lavora rimane uno snodo ineludibile per qualunque sistema Paese che intenda cogliere e dunque moltiplicare le opportunità connesse all’attuale fase.

Anche per quanto riguarda l’Italia, a fronte del cambiamento di paradigma in atto, le classi dirigenti e la pubblica opinione sono poste di fronte alla necessità di “ripensarci su”, nel senso tramandatoci da Butterfield (1949), di fornire cioè una diversa struttura portante, di ricollocare in un nuovo sistema di relazioni reciproche le parole, le idee, i concetti, le decisioni, le azioni finalizzate a promuovere ambienti favorevoli allo sviluppo.

Ripensarci su per essere finalmente consapevoli che anche nella crisi vince chi innova, chi sa scrutare i segni del tempo, chi punta su formazione e ricerca, chi sa attivare processi di competizione-collaborazione a ogni livello, chi investe in capitale umano, nuove professionalità e competenze, chi sceglie la via dello sviluppo che valorizza imprese e territori, città e distretti (culturali, sociali, produttivi) che diventano sempre più competitivi perché sanno sempre più pensare e agire come comunità di interazione che incarnano altrettanti nodi di elaborazione, di comunicazione e di scambio del sapere e del saper fare.

Non è tempo di piccoli aggiustamenti, è tempo di avviare un nuovo corso italiano, di (ri)costruire – a partire dal lavoro e dal suo riconoscimento sociale – il background, la tavola di valori, di riferimenti e di interpretazioni condivise necessari a determinare quello che in altri contesti John Rawls ha definito consenso per intersezione (overlapping consensus), in buona sostanza le cose sulle quali come classi dirigenti e cittadini convergiamo a prescindere dalle variegate, molteplici, significative differenze che caratterizzano le nostre preferenze in un’ampia pluralità di ambiti e di circostanze (Rawls, 1994).

La tesi che intendo sostenere prevede che l’Italia debba fare un salto, prima di tutto culturale, se vuole evitare che l’ombra del suo futuro si appiattisca sul presente. Il salto riguarda tutti, nessuno si senta escluso.

Riguarda le singole persone, senza le quali il cambiamento non diventa modo di essere e di fare, senso comune, condivisione, mission del Paese. Riguarda le classi dirigenti, locali e nazionali, pubbliche e private, alle quali tocca invertire il rapporto tra valore del lavoro e valore dei soldi, e ristabilire il nesso tra potere (possibilità di disporre di risorse e di prendere decisioni) e responsabilità (necessità di operare per il bene comune, per l’interesse generale, per l’interesse della propria impresa, per il raggiungimento di un determinato scopo, ecc.).

Riguarda le organizzazioni – ancora una volta le strutture, i processi e le persone che le governano – destinate ad avere tanto più futuro quanto più riescono a connettere il “fare” con il “pensare”, a valorizzare l’intimo nesso esistente tra la mano, la testa e il cuore, a fare in modo che l’Homo Faber prevalga sull’Animal Laborans, ad affermare idee e modelli produttivi che pongono al centro la qualità del lavoro e mettono in condizione i soggetti che in esse operano di tradurre più efficacemente le idee in azioni e gli obiettivi in risultati.

Le nazioni, i territori, i sistemi produttivi, le aziende più competitive, più innovative, più remunerative sono quelle che sanno leggere di più e meglio le relazioni tra le persone e le organizzazioni, e i loro significati, dal punto di vista della conoscenza. Quelle capaci di attivare processi di competizione collaborazione in grado di migliorare la capacità di lavoro, di innovazione, di networking. Quelle in grado di cogliere e di vincere la sfida della qualità.

L’idea che il lavoro, l’innovazione, la capacità di networking, lo sviluppo di qualità possano rappresentare le leve per innalzare la capacità di attrarre e di competere del sistema Italia è più di un’opzione tra le tante possibili, è una necessità fondata su criteri di utilitas, di razionalità, di interesse. Come sottolineato a più riprese da più parti, cito per tutti Klaus Schwab (2013), fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum, «la capacità di innovazione diventa sempre più un indicatore fondamentale per stabilire la capacità dei singoli paesi di creare lavoro e garantire la loro futura prosperità e questo rende semplicemente indispensabile che i leader economici, politici e della società civile cooperino per determinare condizioni più propizie all’innovazione».

È sulle vie dell’innovazione, del lavoro e dello sviluppo di qualità che l’Italia può fermare il declino, può ritrovare carattere, senso, identità, missione, può riconnettere società e istituzioni, può arginare il deterioramento dello spirito pubblico, può uscire stabilmente dalla crisi. È la relazione esistente tra la capacità di innovare, di competere e di conquistare spazi di mercato da un lato, e il riconoscimento sociale del valore del lavoro, la possibilità che chi lavora abbia una vita più ricca e consapevole, dall’altro, a dare senso e razionalità alla necessità di investire in capitale immateriale, capitale umano, capitale conoscenza, capitale intelligenza.

Il sapere, il saper fare, i processi di apprendimento sono una componente essenziale non solo dei processi di emancipazione delle persone ma anche della capacità di attrarre, competere, eccellere delle imprese, della PA, dei territori, dei sistemi sociali, economici e produttivi con i quali le persone interagiscono. Il che ci riporta inevitabilmente al bisogno di determinare un cambiamento profondo della prospettiva culturale e sociale prima ancora che economica, al tema “classi dirigenti”, alla necessità di declinare il futuro intorno al concetto di “qualità”.

Qualità del lavoro, qualità dell’innovazione, qualità dell’impresa e dei suoi prodotti, qualità della PA e dei suoi servizi, qualità sociale, qualità della vita. La qualità che fa muovere il Paese, che lo fa ripartire, che lo sostiene nei suoi percorsi di cambiamento e di sviluppo, che non si accontenta dei casi di eccellenza, che si fa norma, che aiuta gli obiettivi a diventare risultati muove necessariamente dalla capacità delle organizzazioni – e delle persone che a ogni livello ne fanno parte – di condividere, scambiare, convertire conoscenza.

Senza questa qualità, continuare ad affermare che bisogna «innalzare la capacità e il livello di internazionalizzazione di imprese, università, centri di ricerca, sistema Italia», «dare attuazione all’agenda digitale», «abbattere l’analfabetismo funzionale», «promuovere i talenti che abbiamo e aprire le porte a quelli provenienti da altre parti del mondo» è come lavare il pavimento mentre la casa brucia, semplicemente non serve.

L’Italia ce la fa se tiene assieme lavoro e innovazione. Se fa bene le cose perché è così che si fa. Se assume il lavoro ben fatto come moltiplicatore di possibilità, come fattore di cambiamento, come approccio in grado di tenere assieme l’ebanista e il maker, l’azienda agricola e il rural hub, il cantiere edile e l’impresa di pannelli solari, il borgo antico e la smart city. Se compete perché nel lavoro valorizza la conoscenza, l’innovazione, l’eccellenza, la bellezza, la qualità, la dedizione, l’intelligenza, la professionalità, l’autonomia. Se mette sempre una parte di sé in quello che fa. Se prova soddisfazione nel fare bene le cose a prescindere, quali esse siano. Se cerca nel lavoro il valore, il valore delle persone, il valore di ciò che esse sanno e sanno fare, il valore del Paese.

L’Italia ce la fa se pensa come Nuto che dice ad Anguilla – ne La luna e i falò di Cesare Pavese – che «l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa». Se valorizza il barista e la scienziata, l’artigiano e l’impiegata, il musicista e l’operaia, la maestra, il ferroviere e l’apicultore, lo start-upper e il meccanico, insomma le donne e gli uomini normali che ogni giorno con il proprio lavoro, con l’intelligenza, la passione e l’impegno che mettono nelle cose che fanno, creano le condizioni per dare più senso e significato alle proprie vite e dare più futuro al proprio Paese.

L’Italia ce la fa se riconnette maestria e bellezza. Se investe nella scuola, nella formazione, nella conoscenza. Se si dota di una politica per l’innovazione e la ricerca scientifica. Se mette al centro del nuovo corso le città, i distretti, i territori. Se promuove la cultura d’impresa. Se incentiva e sostiene la transizione delle PMI verso l’economia digitale. L’Italia ce la fa se mette a valore il sapere e il saper fare delle persone, la conoscenza esplicita e tacita delle organizzazioni, la cultura e la storia delle proprie città e delle proprie comunità. Se mette a sistema l’intelligenza, la creatività, il potenziale, l’ingegno, l’intraprendenza, la capacità di intessere relazioni delle persone e delle organizzazioni. Se si convince che il cambiamento ha più senso e significato, e produce più risultati, se nelle mille e mille differenze che caratterizzano il patrimonio agricolo, industriale, della pubblica amministrazione, dei servizi, del nostro Paese, riesce a non perdere di vista la ghianda dell’innovazione, il daimon del lavoro ben fatto. Se nelle poche grandi e medie imprese e nelle tantissime piccole e piccolissime “botteghe” del rinascimento 3.0 prossimo venturo torna a pensare che «ciò che va quasi bene non va bene» e lo torna a fare con la consapevolezza che i processi di cambiamento non possono fermarsi ogni volta alle buone pratiche, debbono farsi sistema.

L’Italia ce la fa se individua nella connessione forte tra Internet delle cose, Internet dell’energia e innovazione da un lato, città, distretti e territori dall’altro, la leva in grado di innescare la svolta sul terreno della capacità competitiva, dello sviluppo e della crescita economica del Paese, la molla capace di attivare il general intellect e di avviare il nuovo corso italiano. Se comprende che la bellezza può essere insieme al sapere e al saper fare l’occasione (nel senso di tempo giusto, di kairos) per tornare a regalare al mondo cultura, innovazione, futuro.

L’Italia che ce la fa è in buona sostanza l’Italia dell’intelligenza collettiva, della bellezza che diventa ricchezza, della cultura che diventa sviluppo, della storia che diventa futuro. È un’Italia che c’è, esiste, è fatta di persone accomunate dalla voglia, dalla speranza, dalla necessità di vivere in un Paese nel quale chiunque fa qualcosa, qualunque cosa faccia, cerca di farla bene. Quest’Italia che c’è ha però bisogno di raccontarsi e di connettersi di più, di creare una nuova narrazione, una nuova epica partecipata, del lavoro. Siamo un paese con una storia lunga e grande alle spalle, anche sul terreno dell’innovazione, della bellezza, del lavoro ben fatto; è venuto il momento di far diventare questa storia il tratto distintivo del lavoro italiano che verrà, il valore aggiunto del sistema Paese, il suo vantaggio competitivo nel mondo al tempo di Internet.

Si può fare. A partire proprio da ciò che l’Italia ha, sa e sa fare. Dal suo amore per la bellezza. Dalla valorizzazione delle culture, delle storie, delle competenze che da secoli caratterizzano il lavoro, l’impresa, il territorio italiano. Per fare dell’Italia un paese più capace di condividere una visione, di innovare, di competere, di attrarre, di internazionalizzare, di creare opportunità. Un Paese con maggiore rispetto di sé e con più fiducia nel proprio futuro.

La tesi che sostengo suggerisce in definitiva che il lavoro ben fatto può essere lo switch off che permette al Paese di lasciarsi definitivamente alle spalle le culture e le pratiche familistiche e amorali e di scegliere finalmente la via del “merito”. Ancora una volta, “merito” inteso non solo come fondamentale indicatore delle abilità-capacità delle persone o della qualità e dell’efficacia della loro azione, ma anche come valore, come punto di riferimento importante nella definizione di strategie volte a superare squilibri e divisioni, a definire le regole di società più giuste perché in grado, per l’appunto, di tutelare le capacità delle persone di realizzare i propri progetti di vita sulla base delle chance che si presentano loro sotto forma di diritti e di risorse, di legami sociali, di capacità (le possibilità concrete di vita) e di abilitazioni (il numero di capacità di cui ciascuna persona può concretamente disporre).

Un concetto di merito. Tante concezioni. Infinite buone pratiche. Per invertire l’ago della bussola ed evitare il declino. (La consapevolezza del fatto che le vie del merito siano lastricate non solo di straordinarie opportunità – a partire da quelle connesse ai concetti di equità e di efficienza -, ma anche di violazioni sostanziali e formali, di ambiguità e di contraddizioni rende semplicemente più evidente l’importanza della posta in palio nell’Italia di questo complicato avvio di XXI secolo.)

Per me il lavoro cambia ma non finisce. Per me oggi rivoluzione è sinonimo di lavoro ben fatto, di bellezza, di innovazione, e comincia dalla testa delle persone, dalla loro cultura, dall’approccio con il quale fanno le cose, quali esse siano. E gli innovatori sono prima di tutto i messaggeri di questa urgenza, di questo bisogno di cambiare cultura e approccio. Per me quelli che l’Italia la vogliono cambiare davvero sono quelli del lavoro ben fatto. Per me lo scriverei sui muri delle case, delle scuole, delle fabbriche, delle botteghe artigiane, dei fablab, delle officine digitali, degli uffici, dei laboratori di ricerca. Per me non abbiamo molto tempo ma ce la possiamo ancora fare. Per me se non ora, quando?

 

Per approfondire:

  • Butterfield, H. (1949), The Origins of Moderne Sciences, 1300 -1800, G. Bell & Sons, Londra;
  • Rawls, J. (1994) Liberalismo politico, a cura di Salvatore Veca, Edizioni di Comunità, Roma;
  • Schwab, K. (a cura di) (2013), The Global Competitiveness Report 2013-2014, World Economic Forum, Ginevra;
  • Sennet, R. (2009), Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, Il Mulino, Bologna;
  • Sennet, R. (2013), L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano.

 

Articolo reperibile su Futuri Magazine – Italian Institute for the Future.

 

Foto: “Work” (CC BY-NC 2.0) by Fs.

About Vincenzo Moretti

Dirige la sezione Società Cultura e Innovazione per la Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Già docente di Sociologia dell’Organizzazione e di Sociologia Industriale all’Università degli Studi di Salerno, è ideatore di #lavorobenfatto e de La notte del lavoro narrato. Autore di numerosi volumi, scrive attualmente per Nòva Il Sole 24 Ore, Che Futuro e Resto al Sud. E' membro del Comitato Consultivo del CED.

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