Sostenibilità e dialogo: le parole d’ordine per un nuovo modello di cooperazione internazionale

Vanessa Tullo

7153383523_70a2e9034c_b

Il futuro della cooperazione allo sviluppo è stato al centro del IV Congresso CUCS – acronimo di Coordinamento Universitario per la Cooperazione allo Sviluppo – che si è tenuto all’Università di Brescia dal 10 al 12 settembre. Un evento importante per il fare il punto sul dibattito teorico e le pratiche concrete in un settore strategico che dal 2007, con il protocollo d’intesa firmato tra diverse Università italiane e la Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, si avvale di un’attenzione privilegiata da parte del mondo accademico nazionale. All’evento hanno preso parte alcune tra le più importanti realtà di cooperazione internazionale in Italia e, al di là dei singoli progetti presentati, molto significativi sono stati gli interventi dei principali relatori che si sono interrogati senza retorica sulle disfunzioni attuali del sistema di cooperazione, e su quali potrebbero essere i nuovi obiettivi da porsi.

image

Prima riflessione necessaria è quella sulla possibilità di conciliare emergenza e pianificazione dello sviluppo. La parola chiave riguardo al futuro della cooperazione – secondo Gian Battista Parigi dell’Università di Pavia – è, concordemente, proprio “sostenibilità”, intesa come stabilità degli effetti dei progetti nel tempo dal punto di vista sociale, economico e ambientale. Nonostante l’obiettivo sia focalizzare l’attenzione su progetti strutturali a lunga durata, il normale contesto in cui le realtà della cooperazione si trovano ad operare è – totalmente in antitesi – quello dell’emergenza, dovuta in particolare a forti instabilità politiche determinatesi in seguito al venir meno della situazione di forzato equilibrio internazionale durante la Guerra fredda, e che ha portato nel tempo al ridisegnamento di numerosi confini. L’unica realtà che da sempre è riuscita ad andare oltre l’aspetto emergenziale è l’Università, vero e proprio trait d’union tra emergenza e sostenibilità, in quanto luogo neutrale e finalizzato primariamente allo sviluppo del “capitale umano”.

 

 La parola chiave riguardo al futuro della cooperazione è, concordemente, proprio “sostenibilità”, intesa come stabilità degli effetti dei progetti nel tempo dal punto di vista sociale, economico e ambientale.

 

Anche Angelo Stefanini, professore all’Università di Bologna e Delegato CRUI nel Consiglio nazionale per la cooperazione e lo sviluppo, ha confermato l’urgente necessità di soggetti che garantiscano una posizione di imparzialità nell’individuazione delle realtà in cui avviare progetti, opzione che consentirebbe, oltretutto, di sganciare gli interventi dalla dimensione della contingenza. A partire dal 2001, infatti, le scelte in materia di cooperazione internazionale si sono sempre più caratterizzate politicamente a causa dell’aggiunta della sicurezza internazionale tra gli obiettivi, oggi preponderanti, nell’orientare la destinazione degli aiuti e delle donazioni. Stefanini – pur senza generalizzare – individua nelle scelte di cooperazione attuali una vera e propria strategia di difesa degli interessi nazionali, in molti casi coordinata con interventi politico-militari. Il corto circuito in questo sistema si verifica quando la sicurezza nazionale non corrisponde, o è addirittura contraria, alla cosiddetta “sicurezza umana”, definita dall’ UNDP la difesa dei bisogni fondamentali mediante modalità compatibili con la realizzazione dell’essere umano (emblematici i casi di Guantanamo e Abu Ghraib). Primo obiettivo della cooperazione, e unica prassi efficace per trasformare le azioni da emergenziali a sostenibili secondo il principio del do not harm, deve essere, invece, quello di non provocare danni ponendo al centro della propria attività la sicurezza delle popolazioni. Per questo, è necessaria l’ideazione di strumenti che consentano di valutare anticipatamente l’impatto del progetto e degli eventuali effetti negativi e distorsivi. Posto che nessun intervento tecnico può sostituirsi a un’azione politica, è altrettanto vero che può acquisire tale valenza. Spesso gli aiuti, volontariamente o meno, normalizzano situazioni contrarie ai diritti civili o al diritto umanitario internazionale senza contribuire all’avvio di tavoli diplomatici, ma – al contrario – favorendo dinamiche competitive tra le organizzazioni di cooperazione (come ricordato dalla Corte internazionale di giustizia nel 2004 sul caso degli aiuti nel Territorio Palestinese Occupato). Per questo motivo, la predisposizione di azioni tese alla realizzazione del principio do not harm deve necessariamente fondarsi su scelte politiche cui da un lato consegua l’assunzione di responsabilità, da parte degli Stati, degli effetti collaterali provocati dai propri interventi e, dall’altro, un rafforzamento in senso coercitivo del diritto internazionale.

 

Primo obiettivo della cooperazione, e unica prassi efficace per trasformare le azioni da emergenziali a sostenibili secondo il principio del do not harm, deve essere quello di non provocare danni ponendo al centro della propria attività la sicurezza delle popolazioni.

La seconda sessione di interventi si è focalizzata sull’effettiva validità delle tradizionali modalità di azione. Gianni Vaggi, professore allo IUSS di Pavia, ritiene che i parametri attualmente utilizzati per analizzare i differenti contesti geografici non siano adeguati per localizzare correttamente le aree in cui intervenire, elemento evidentemente essenziale per essere concretamente incisivi nella lotta alla povertà. In particolare, le convenzionali soglie di povertà media non sono in grado di creare delle fotografie reali dei paesi esaminati e non rilevano l’indice di disuguaglianza, parametro ben più affidabile sul reale malessere delle popolazioni, in particolare per individuare le nuove povertà nei paesi tradizionalmente donatori. Tali metodi hanno prodotto disfunzioni quali la classificazione dei cosiddetti BRICS tra i middle low income countries, ma che alla luce di una lettura più realistica presentano situazioni di forte disagio e disuguaglianza che dovrebbero determinare una loro declassificazione, questione più che spinosa dal punto di vista politico.

 

Le convenzionali soglie di povertà media non sono in grado di creare delle fotografie reali dei paesi esaminati e non rilevano l’indice di disuguaglianza, parametro ben più affidabile sul reale malessere delle popolazioni.

 

Ulteriore cambiamento fondamentale per intervenire in modo efficace – secondo Vaggi – è la reale concertazione delle scelte con i paesi destinatari degli aiuti. Non a caso, infatti, nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, oltre ai preesistenti sustainable goals, è stata prevista la creazione di partnership globali, segno di un mutamento radicale di prospettiva. La realizzazione del precetto del leave no one behind, alla base del documento programmatico, non può prescindere dall’instaurazione di rapporti paritari tra partner, che comprendono anche la libertà dei paesi riceventi di stabilire in quale modo impiegare le risorse, e la capacità dei donatori di rispettare tali scelte. Le politiche globali devono essere inserite in un dialogo triangolare tra vecchi e nuovi donatori (i BRICS) e i paesi in via di sviluppo, per attuare nelle aree di crisi innanzitutto un sistema di protezione sociale – punto su cui si gioca anche la partita delle migrazioni – che consenta inoltre di potenziare le capacità umane, amministrative e gestionali di tali paesi.

 

Nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, oltre ai preesistenti sustainable goals, è stata prevista la creazione di partnership globali, segno di un mutamento radicale di prospettiva. La realizzazione del precetto delleave no one behind, alla base del documento programmatico, non può prescindere dall’instaurazione di rapporti paritari tra partner.

In conclusione, tutti i relatori coinvolti in questo confronto hanno risposto positivamente alla domanda posta dal titolo del convegno, ossia se e come rinforzare il capitale umano dei paesi in via di sviluppo. Certamente, presupposto per riuscire in questo intento è che il mondo occidentale, tradizionalmente identificato come parte donatrice, rivoluzioni il proprio pensiero, sia mettendo in discussione il modello economico che ha esportato finora, chiedendosi se può essere davvero la risposta per costruire un sistema economico globale sostenibile, sia scardinando le classiche dinamiche di dominazione che, nel tempo, hanno spesso caratterizzato anche l’ambito della cooperazione internazionale. Restituire ai paesi in via di sviluppo un ruolo di partner paritari mediante il canale privilegiato della formazione – rappresentato specialmente dall’Università – potrà significare davvero costruire un sistema virtuoso fondato sullo scambio di competenze che ci permetterà di fronteggiare insieme, e in modo concretamente efficace, le sfide globali che ci attendono.

Foto (CC BY 4.0) by EarthDayPictures

About Vanessa Tullo

Avvocato, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *